Nevio Pizza
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è da annoverare tra i primissimi edifici cristiani costruiti in città, pare addirittura seconda solo alla Basilica di Santa Restituta voluta dall’imperatore Costantino e distante poche decine di metri. La chiesa fu realizzata grazie al fondamentale impulso del vescovo Severo, in carica dal 357 circa al 400, personaggio fondamentale nell’accompagnare Napoli dal paganesimo alla nuova religione grazie al suo grande carisma, riconosciuto anche dalle autorità imperiali: inizialmente detta per questo motivo “la Severiana”, fu per tutto il medioevo una delle 4 parrocchie di Napoli insieme alle costantiniane San Giovanni Maggiore, Santa Maria Maggiore, e quella dei SS. Apostoli mentre dal IX secolo fu intitolata a San Giorgio Maggiore, forse in accordo con il sentire del popolo che nei complessi secoli altomedievali, in continua guerra con i longobardi, si identificherà proprio nel cavaliere che combatte il drago. Severo troverà infine sepoltura proprio qui, dopo la traslazione dalle catacombe di San Gennaro ove inizialmente fu seppellito. Ciò che è profondamente mutato, nel corso dei secoli, è la chiesa stessa: sono almeno 4 le fasi che ne caratterizzano la più che millenaria storia. Detto degli esordi, bisogna arrivare al 1640 quando, a seguito di un incendio, si rese necessario un primo importante intervento di modifica strutturale per opera dell'onnipresente Cosimo Fanzago che ne invertì l’orientamento di 360°, da nord a sud; la rivolta di Masaniello prima, la peste del ’56, e ancora il grave sisma del 1688, incomprensioni fra chi dirigeva i lavori e i proprietari degli edifici adiacenti rallentarono e prolungarono i restauri a lungo; le innumerevoli vicissitudini, i continui rimaneggiamenti subiti, hanno portato però ad una importantissima scoperta archeologica quando, in concomitanza con gli interventi del Risanamento, verrà riscoperta l’abside paleocristiana dell’antichissimo luogo di culto che, solo per l’intervento di Giovan Battista de Rossi (quasi un nume tutelare per chi ama l’archeologia cristiana) si salvò da certa distruzione. Oltre l’evento, piuttosto raro di per sé, di un rinvenimento paleocristiano nel cuore del centro storico di Napoli, ciò che rende assolutamente straordinaria questa abside è il fatto che si tratti di una “abside aperta”: essa infatti è aperta da tre archi poggianti su colonne romane, risalenti al II secolo dopo Cristo (secondo alcuni provenienti da un tempio di Demetra su cui poggerebbe la chiesa), e doveva aprirsi su un ambiente retrostante la cui funzione non è chiara a causa della perdita sua e di parte dell’edificio paleocristiano. Ciò non permette di capire bene perché il Vescovo Severo scelse di costruire l’abside aperta in una basilica non cimiteriale (absidi simili si trovano nelle chiese cimiteriali perché attraversando l’abside si entrava nei luoghi di sepoltura: esempi simili si trovano a Roma ed una a Napoli, quella che apre verso le catacombe di San Gennaro, dalla basilica di San Gennaro Extramoenia): è infatti opportuno ricordare che, per legge, le sepolture dovessero essere realizzate fuori alla cinta muraria e qui siamo nel cuore dell’antica Neapolis.
La pianta Baratta testimonia una situazione immediatamente precedente l’incendio del 1640 senza il quale, con ogni probabilità, avremmo avuto più possibilità di ammirare qualcosa di straordinariamente raro e, pare, senza precedenti. Dal satellite appare evidente, quasi superfluo, l’immane danno al patrimonio artistico, storico e della memoria della nostra città, in un luogo in cui si decise di piantare i semi della nuova religione che, qui più che altrove, assunse presto i connotati di apertura, accoglienza, cultura e capacità di mescolare tradizioni secolari, novità orientali e sempre con uno sguardo rivolto al futuro. Teniamolo bene in mente quando ci passiamo davanti distrattamente, presi dalla frenesia del posto fra scooter, bancarelle e quant’altro oggi affolla quel piccolo largo dove, potremmo dire, quasi tutto cominciò.